And to the radiant southern sun

22 Marzo 102 PA - Locanda delle Terre Libere

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    Il viaggio per mare era stato un'autentica tortura. Era piuttosto difficile, bisognava darne atto, che un isolano come lui non fosse mai salito su di un'imbarcazione, ma era proprio così: Dante non aveva mai messo piede su neppure una zattera o tavola di legno galleggiante. La galea attraccava al porto dell'Isola Verde ogni mese e conduceva gli isolani ovunque desiderassero. Era enorme e dal carico immenso, poteva trasportare cento persone o più senza alcuna fatica. Dante aveva aspettato quel giorno del mese in cui la nave sarebbe giunta al porto e lui, pagando il dazio per salire a bordo, sarebbe salpato per le terre Libere. Aveva deciso di cominciare da lì il suo lungo peregrinare attorno alle Fazioni. Doveva trovare lavoro, denaro per vitto e alloggio nelle locande, denaro per i propri bisogni. Aveva messo da parte dei risparmi per qualsiasi evenienza, questo era vero, ma non erano poi molti e non era stato in grado di chiederne ai suoi genitori senza provocar loro altri dispiaceri. Certo, non erano dei mendicanti ma nemmeno navigavano nell'oro e quei soldi sarebbero serviti per provvedere a loro stessi. Li aveva già afflitti abbastanza con la repentina partenza. Non aveva dato loro troppe spiegazioni, aveva raccolto indumenti, strumenti da lavoro, il minimo indispensabile di tutti i suoi averi e aveva conservato tutto in una sacca che portava di traverso lungo il fianco. Non bisognava d'altro. Aveva dato un bacio a sua madre e uno a sua nonna e aveva stretto con vigore la mano a suo padre e a suo nonno. Aveva bisogno di nuove esperienze, ecco cosa aveva detto loro: dire che non avrebbe mai seguito le orme dei suoi avi, che difficilmente avrebbe fatto ritorno in quelle terre e mai per rimanerci, che avrebbe vissuto allo sbando, peregrinando come un mercenario alla ricerca di un lavoro, qualunque esso sia, avrebbe lacerato i loro cuori indissolubilmente. Aveva stretto con cura la sciarpa di lana attorno al collo per proteggersi dai venti freddi che Marzo era solito condurre con sè e aveva atteso l'arrivo della galea. Aveva pagato la somma d'accesso ed era salito a bordo, assieme ad altri isolani come lui. Il viaggio in sè non era stato eccessivamente lungo, nè particolarmente tumultuoso ma Dante ne pagò comunque con malori d'ogni genere, si trattasse di perdita d'equilibrio, nausea e altri sconvenienti sintomi. Era rimasto praticamente tutto il tempo sottocoperta, sentendo il proprio corpo oscillare come una foglia che d'autunno è restia a cadere. Toccando la terra ferma, lo stomaco già abbondantemente provato di Dante aveva avuto un ultimo sussulto di gioia alla ritrovata stabilità. Appena sceso dalla nave, Dante aveva cominciato subito il suo lungo cammino verso la città più prosperosa nelle immediate vicinanze, dove avrebbe potuto informarsi su lavori disponibili d'ogni genere. La galea aveva affrontato cinque lunghi giorni di viaggio prima di raggiungere le Terre Libere, l'attracco era avvenuto al mattino presto e, Dante, si ritrovava ad avere l'intera giornata di cammino innanzi a sè. Si fermò con diversi pescatori e popolani e chiese la via più breve per la città più vicina. Gli dissero che non vi era nulla di più facile, doveva proseguire a nord, sempre dritto, seguendo una lunga via spesso attraversata da carri mercantili. Se anche si fosse perso, avrebbe potuto domandare la via ad uno di loro. Dante si era congedato con un sorriso gentile e si era messo in cammino. Aveva attraversato diversi piccoli villaggi, numerosi campi coltivati e sparute casette al limitare della strada. Era vero ciò che gli era stato detto al porto: più volte era stato sorpassato da carri di ogni genere e misura. Arrivò in città che ormai era sera. Aveva le membra stanche, era distrutto e piuttosto affamato. Durante il pomeriggio aveva mangiato quel poco di pane e formaggio che aveva portato con sè dalla nave, ma non era stato poi tanto sufficiente. Doveva assolutamente cercare una locanda nella quale trovare ristoro. La città non era grande quanto si era effettivamente aspettato, ma poteva notare le calde luci e i tipici schiamazzi di una locanda sul limitare della via principale che ormai percorreva da quella mattina, il che era un gran bene. Con nuovo animo speranzoso, si mosse verso di essa. Era eretta su tre piani, una struttura senza dubbio solida e ben fatta. Diverse lanterne erano appese alle mura e una grossa insegna di legno era appesa sotto una di queste. Alcune luci del primo e del secondo piano erano accese, mentre quelle del piano terra lo erano tutte. Dante si strofinò le mani e spinse il chiavistello della porta. Una calda ondata gli investì il viso, facendogli tremare il resto del corpo. Per tutto il giorno si era avvolto la sciarpa più volte cercando di riscaldarsi o aveva strofinato le mani riscaldandole con il proprio alito. La sala era gremita di gente. Vi era un gigantesco camino sul fondo della sala e un gran bel fuoco scoppiettante brillava al suo interno. Vi era un lungo bancone sul lato sinistro e uomini piuttosto allegri seduti sugli sgabelli innanzi ad esso. L'intera sala era piena di tavoli e tavolini d'ogni genere, giovani e vecchi accampati praticamente ovunque e nemmeno uno di loro senza un gran boccale di vino da portare avidamente alle labbra. Dante s'accorse di volerlo anche lui, un boccale di vino bollente per rinfrancare le membra spossate. Si guardò per la sala alla ricerca di un posticino caldo e isolato dove sistemarsi. Lo identificò praticamente subito. Vi era un minuscolo sgabello proprio davanti al camino e nessuno sembrava detenere quel posto: perfetto. Percorse la sala a grandi falcate e vi si andò a sedere, allentando la stretta della sciarpa e allugando le mani verso il calore. Sorrise fra sè, e tenne gli occhi fissi sull'ipnotico guizzo delle fiamme crepitanti.
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    Sera, locanda, uomini. Non c’era niente di diverso da tutte le altre volte. Mai niente di diverso. Era cambiato tutto da quando avevo smesso di cucire, sempre piegata su tessuti di tutti i tipi a fare gonnelle e corsetti che non avrei mai indossato e poi ancora da quando avevo smesso di servire ai tavoli in quella locanda piccola e graziosa vicino casa mia, ma poi mi ero ritrovata lì, in quella sorta di taverna da intrattenimento – o come volete chiamarla, noi lì ancora non avevamo trovato un nome specifico – ed ogni sera era lo stesso. Sempre la stessa musica, sempre le stesse facce, sempre le stesse cose. C’erano volte, come quel giorno, in cui mi chiedevo se fosse possibile tornare indietro nel tempo, all’anti-Apocalisse, scoprire come fosse la vita allora. Doveva esserci qualcosa di diverso, le persone dovevano essere diverse. Chissà Libertà cos’era, a quel tempo! Fantasticavo sempre, io. Cercavo sempre un modo per evadere da quel mondo, nonostante fosse la terra dei liberi, sebbene io ormai fossi convinta di poter fare di tutto, di poter andare ovunque. Ne ero convinta, ma non lo facevo mai. Non ero certa di cosa mi trattenesse lì, nella stessa casa, nella stessa taverna, con la stessa noia di sempre. Ma qualcosa c’era. Continuavo a dirmi che sì, che prima o poi quelle convinzioni si sarebbero tramutate in realtà, ma più passavano i giorni e più mi chiedevo quando ci sarei riuscita. Niente fraintendimenti: mi divertivo, quello che facevo mi distraeva quasi sempre, e non sono certo parte della schiera dei depressi che con un colpo di spugna vorrebbero ricominciare daccapo la propria vita. Diciamo che non mi lasciavo mai abbattere, e quindi quella “noia di sempre”, come l’ho definita, impiegava poco ad andare via, spazzata lontano da un mio sorriso, o dall’ennesima piroetta accompagnata dal suono di un flauto o di una chitarra.
    Quella sera l’unica fonte musicale era Brad, un giovane musico approdato a Libertà solo un anno prima, ma che era riuscito a farsi degli amici e, soprattutto, a racimolare dei soldi con quel lavoro: aveva sempre la sua chitarra in spalla, intagliata a mano da suo padre, e ci allietava tutti con la sua musica, ricavandone soldi per vivere. Insomma, c’era stata l’Apocalisse, ma per fortuna qualcuno era riuscito a riportare un tocco di colore in quel mondo (celatamente) devastato. La taverna era stracolma di gente, soprattutto di uomini da poco rientrati dal lavoro, alla ricerca di un pasto caldo e di un po’ di divertimento. C’è da dire che quel posto sarebbe risultato gremito anche solo se ci fossimo stati noi dipendenti e basta, poiché tra cameriere, ragazze di compagnia e intrattenitrici, non è che ci stessimo larghe. Ma quando poi si occupava fino all’ultimo sgabello, lì sì che era felicità generale. Il proprietario della baracca gongolava da dietro il bancone, potevo giurare che di lì a poco avrebbe cominciato ad annusare estatico il denaro di quella sera, io avevo già intrattenuto molti dei clienti fissi della bottega, ed ero appena salita su di un tavolo per sfrenarmi un tantino, divertirmi al tempo di quella veloce ballata pizzicata da Brad. Gli orli della mia lunga gonna leggera ondeggiavano lungo le mie gambe, ne tenevo dei lembi con una mano mentre l’altra giocava tra i miei capelli arricciati, e gli occhi azzurri perlustravano la stanza, così per attirare l’attenzione. Ballavo divertita, fino a che non vidi, tra la folla, una faccia del tutto nuova. Un ragazzo, mai visto prima in quel quartiere, aveva appena fatto il suo ingresso in taverna. Era solo, cercò un posto dove sedersi e sembrò sentirsi a suo agio poco distante da uno dei caminetti della sala. Ora… potevo mai lasciarmi sfuggire la novità della serata? Non ci misi più di un paio di secondi ad interrompere la mia sfrenatezza e a saltar giù dal tavolo, muovendomi con passo felino verso il malcapitato, un enorme sorriso vispo dipinto in viso, ma l’aria innocente. Quando fui al suo fianco, sedetti proprio sulle sue gambe, circondando il suo collo con le braccia e continuando a sorridere, stavolta a lui. Buonasera, straniero. Lo salutai, trillando allegra. Guardai i suoi vestiti e il tavolo vuoto. Se ti offro del buon vino, posso tenerti compagnia? Mi avrebbe preso per matta? Probabilmente sì. Gli avrei offerto davvero del vino? Ovvio che sì. Non mi ero avvicinata a lui per lavoro, ma perché… oh, ero curiosa per natura, spigliata per altrettanta natura e, insomma, quello era un nuovo modo per ammazzare la mia noia, no?
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    Dante guardava come ipnotizzato il dolce crepitio delle fiamme e i carboni incandescenti che brillavano sul fondo del camino. Si sedette comodo e chiuse per un attimo gli occhi. Gli schiamazzi degli uomini per tutta la sala erano molto forti. C'era chi urlava, chi brindava, chi cantava canzoni prive di senso alcuno perchè in stato d'ebbrezza. Udì persino della musica, gente che incitava e batteva le mani compiaciuta. Non aprì gli occhi, aveva bisogno di tanto riposo. Si stiracchiò e si sgranchì le gambe. Forse una locanda era un buon posto per cominciare a far domande. Ci doveva pur essere un fabbro che necessitasse di un assistente per qualche giorno, o qualcuno che desiderasse uno stalliere. Dante era pronto a svolgere qualsiasi lavoro fosse disponibile per lui, senza alcuna eccezione. Che si trattasse di lavori che implicassero la forza fisica o meno, non vi era problema alcuno. Avrebbe potuto aiutare un vinaio a portare grosse botti allo stesso modo con cui avrebbe riposto i libri sugli scaffali di un bottegaio. Avrebbe cominciato la ricerca al mattino, si disse. Sarebbe stato certamente più fresco e riposato e avrebbe potuto cominciare già da quel momento il suo primo incarico. Adesso però, necessitava di qualcosa che gli riscaldasse le viscere, che scendesse fiammeggiante lungo la gola e che gli rinvigorisse le membra spossate. Un bel boccale di vino caldo, ecco cosa ci voleva. Si accorse però di non avere la forza per sollevarsi da quello sgabello. Le sue ginocchia avevano ceduto alla stanchezza e i polpacci altrettanto. Sospirò e si guardò attorno. Tutti gli inservienti sembravano piuttosto indaffarati agli altri tavoli e nessuno sembrava averlo notato, neanche quando era entrato nella locanda. Fece spallucce: non appena avesse riacquistato quel poco di forze necessarie, si sarebbe alzato e si sarebbe diretto al bancone. Ma non in quel momento. Tornò a fissare il guizzo allegro del fuoco, il suo riflesso dorato si specchiava negli occhi verde azzurri di Dante muovendo le fiamme come stendardi contro il vento del Nord. Avvertì un ombra al proprio fianco e non fece in tempo a girarsi che qualcosa si era già impossessato di lui. Confuso si voltò di scatto. Una figura si era sistemata sulle sue gambe e abbarbicata al suo collo. Dante si scostò appena per capire chi fosse. Una giovane gli sorrideva sorniona, comodamente appollaiata sulle sue ginocchia. Lunghi ricci ramati le scendevano morbidi sulle spalle, incorniciando un bel viso tondo e chiaro nel quale erano incastonati due perfetti occhi azzurri. Dante s'accigliò, fissando la giovane che ormai gli stringeva le braccia attorno al collo. Questa lo salutò allegra e gli domandò se, offrendogli del vino, sarebbe potuta rimanere in sua compagnia. Dante sollevò un sopracciglio e inclinò leggermente la testa di lato. Da dove spuntava quella ragazza? Si guardò attorno ancora una volta e notò che non era l'unica: altre giovani scorrazzavano allegramente per la sala, intrattenendo ora un uomo, ora un altro. Dov'era capitato? Pregò che non fosse ciò che pensava. Lo repelleva l'idea di un posto dove le donne fossero tenute in così poco conto tanto da essere poco più che bestie da monta. Poichè non gli sembrò di vedere atti particolarmente indecoroso nè da parte delle ragazze, nè da parte degli uomini, si rilassò. Si passò una mano tra i folti capelli color nocciola e sorrise a sua volta. "Buona sera a voi, mia signora." la salutò con voce gentile. "Certo, potete restare in mia compagnia quanto desiderate, ma non sia mai che siate voi ad offrire qualcosa a me. Perdio, sono pur sempre un uomo." Sforderò un altro dei suoi più naturali sorrisi rivolgendolo alla giovane. Non aveva certo intenzione di spingersi oltre, ovviamente, ma parlare con qualcuno e svagarsi un po' lo avrebbe risollevato maggiormente dal lungo viaggio.
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    Non ero la strana del villaggio, ma ero sempre stata quella diversa. A mio favore giocava il fatto che mi trovassi nelle terre libere, e che bene o male un sentimento di pseudo anarchia era fiorente nel cuore di tutti. Non eravamo un popolo che si facesse giustizia da solo, ma eravamo fieri e contenti di essere indipendenti. Ma ho sempre pensato che se riuscivamo ad essere indipendenti come popolo, quindi come Fazione, significava che, nel profondo, dovevamo avere tutti un animo indipendente, un piccolo spirito libero sepolto in ognuno di noi. Però non erano certo tutte come me, le ragazze di Libertà. Sin da bambina ero stata educata in un certo modo dai miei genitori, per lo più da mia madre, ma in ogni caso avevo sempre, sempre provato ad evadere. Chiunque mi conoscesse, sapeva che io portassi con me sempre un pizzico di ilarità, di vivacità che non tutti avevano. Non mi piaceva divertirmi prendendomi gioco degli altri, non mi piaceva nemmeno dare spettacolo. In qualsiasi gruppo finissi, ero l’anima della festa senza che nemmeno lo volessi o me ne rendessi conto. Penso che ci sia da capire di me che io vivessi prima per me stessa. Se divertivo qualcuno, ne ero lieta, ma prima di tutto dovevo provvedere al mio, di divertimento. Non ero capace di star ferma in un posto, dovevo muovermi, darmi da fare, assecondare quella frenesia, quell’affannosa ricerca di vita, come un fuoco ardente che consumava velocemente legna, e che per non spegnersi ne chiedeva sempre più. Per questo ero diversa. Ne avevo conosciuto poche come me, e altrettanto pochi uomini che riuscissero ad assecondarmi. Diciamo che potevo portare all’esaurimento anche i poveri cavalieri di drago che di pazienza ne avevano abbastanza.
    Ma la mia prerogativa era solo quella di vivere, ecco. Per quanto potessi essere diversa da altre donne a modo, tutte ben indirizzate nei loro mestieri da tessitrici, assistenti di bottega, panettiere e tutti gli altri tranquilli mestieri di quel mondo post-apocalittico, non ero una ragazza di malaffare. Né mi piaceva essere considerata tale. Io ero semplicemente un eccesso vivente, tendevo ad estremizzare tutte le mie emozioni, tutti i miei istinti, ma non facevo niente che fosse indecoroso per il mio stesso io, per la mia stessa persona. Così come quel lavoro che svolgevo. Non era un bordello quello in cui lavoravo, ma nemmeno potevo definirmi una cameriera di tutto rispetto, che non faceva altro che servire zuppe calde e boccali di vino per clienti decorosi. Era un eccesso anche quella taverna, ed era per questo che me l’ero andata a cercare di proposito. Nulla era definito, l’unica certezza era la consapevolezza di cosa non facessi in quel locale. A buon intenditor, poche parole. Complicato, eh? Non voglio far impazzire nessuno. Solo il malcapitato in questione, forse… Non avevo canoni specifici per far impazzire – in senso buono – qualcuno che finisse tra le mie grinfie – sempre in senso buono – ma, generalmente, erano tutti uomini rispettabili e intimiditi dai miei atteggiamenti. Ero brava a metterli in imbarazzo per poi chiarire quali fossero le mie reali intenzioni, e qualcosa mi diceva che anche con quel buon uomo ci sarei riuscita. Non sembrò affatto avermi notato quando mi ero avvicinata a lui, e notai davvero la sorpresa nel suo sguardo quando si accorse che gli stavo proprio abbarbicata addosso. Non smisi di sorridergli, e sottolineo che non feci null’altro di compromettente per poterlo mettere già in difficoltà. Lo ascoltai, e compresi che, almeno in apparenza, fosse davvero un brav’uomo. Ma… se credete che mi intenerisse, siete fuori strada. Era piacevolmente divertente, ma quasi niente riusciva ad intenerirmi. Ridacchiai quando ebbe finito di parlare, e senza dirgli nulla, feci cenno ad una delle ragazze affinché portasse del buon vino. Quando lo fece, mi sollevai dalle gambe del buon uomo, e mi misi a sedere su di un’estremità del tavolo, così da non dargli fastidio. E sono certa che siate molto rispettabile, ma non offro vino a tutti, potreste considerarlo un onore! Gli dissi sincera, dondolando le gambe fuori dal bordo del tavolo, e passandomi una mano tra i capelli poco dopo. E chiamatemi Phoebe. I titoli non mi si addicono tanto. Aggiunsi ancora, arricciando piano il naso arrotondato. Ditemi, straniero, lo avete un nome? Non capita molto spesso di vedere facce nuove da queste parti, dovete venire da lontano. Curiosai poi, senza assumere toni austeri o troppo inquisitori. La mia voce era leggera, così come la mia espressione, ed il dolce sorriso che gli stavo riservando in quel momento.
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    Secondo alcuni Dante era semplicemente ingenuo. Viveva la sua vita dominato dalla bontà, non conosceva cattiveria e malizia. Ovviamente, tutto ciò era parzialmente vero e parzialmente falso. Dante era ingenuo, vero, ma non sprovveduto. C’era qualcosa nella sua assurda ingenuità che, ogniqualvolta fosse necessario, si frapponeva e la confutava. Una sorta di strana furbizia, senso della realtà o giù di lì. Non era quel tipo di persona facilmente malleabile, servile e incondizionata. Dante era totalmente differente. Eppure, non possedeva un carattere complicato. Tutto ciò che lo riguardava si riduceva al concetto di bontà, gentilezza, amore verso il prossimo. Dante era un giovane caritatevole con il sorriso dipinto sul volto pronto a fare qualsiasi cosa richiedesse aiuto. L’unico momento in cui aveva visto la cattiveria nell’uomo era stato quando quei ragazzi avevano ucciso la sua lupa. Per contro, quel giorno aveva pure pianto come un bambino. Ma poi si era risollevato, animato da una forza nuova e, sotto certi versi, addirittura pericolosa. Aveva preso una decisione, era intenzionato a portarla a termine. Era un uomo, non un ragazzo, e se ve ne fosse stata la necessità, sarebbe stato anche disposto a pagare per i suoi errori, qualunque essi fossero. Probabilmente, era la sua più grande qualità: affrontava ogni ostacolo con una maturità impressionante e una forza d’animo non da meno. Si poneva tante domande, certo, ma alla fine faceva sempre la cosa giusta. Agiva un po’ secondo la filosofia: porsi domande è giusto, avere la risposta pronta meno. Al momento della decisione di partire aveva sofferto, e molto anche. Aveva considerato tutti gli aspetti di quel viaggio, come si sarebbe mantenuto, cosa avrebbe potuto fare, dove sarebbe andato ma, soprattutto, come avrebbero reagito i suoi genitori. L’idea di abbandonarli lo repelleva eppure, una piccola vocina interiore affermava che fosse la cosa giusta da fare. Doveva crescere un altro po’ e poi sarebbe tornato, più uomo di prima. Doveva cambiare aria, doveva conoscere il mondo, doveva rendersi più forte e capace e poi, solo e soltanto dopo, avrebbe fatto ritorno a casa propria. Forse per restarci, forse no. Tutto era nelle mani del futuro. Ma è pur vero che il futuro comincia con un presente, e ora Dante doveva fare mille esperienze. A venticinque anni, si avverte molte volte il violento impulso di comportarsi come adolescenti e fare esattamente tutto ciò che passa per l’anticamera del cervello. E proprio come un ragazzino sprovveduto, Dante aveva cominciato quel viaggio senza capo né coda alla ricerca di un qualcosa che neanche lui sapeva cosa fosse. O forse lo sapeva, ma era ancora troppo presto per dirselo apertamente. Non si trattava di una vera e propria fuga, no: lui aveva deciso coscientemente di partire e nulla l’aveva fermato. Aveva avuto dei ripensamenti, certo, ma questi non l’avevano fermato, anzi, l’avevano aiutato a proseguire con più lena e convinzione di prima. Quando ebbe finito di parlare, la ragazza ridacchiò e, facendo un cenno, fece sì che fosse portata una brocca di vino fino al loro tavolo. La ragazza si sollevò dalle sue gambe e si appollaiò sul bordo del tavolo, continuando a guardarlo e a sorridergli. Disse che lui le pareva un uomo di tutto rispetto, e che non era solita offrire vino a chiunque, doveva ritenersi fortunato. "Un uomo di tutto rispetto? E se così non fosse?" rise Dante, "Se così non fosse, i vostri sensi potrebbero non essere poi così acuti." Prese un boccale e bevve il vino caldo con lentezza. Si trattava di un buon vino, inizialmente aspro ma dal retrogusto fruttato. "Neanche a me si addicono titoli, eppure continuate a chiamarmi straniero" sorrise Dante, posando per un attimo il boccale. "In ogni caso, siete un'ottima osservatrice. Difatti, vengo dall'Isola Verde. Un nome? Tutti hanno un nome. Il mio è Dante ma, se preferite, potreste continuare a chiamarmi straniero". Ridacchiò divertito e portò nuovamente alle labbra il boccale per sorseggiare altro vino.
    Dante Marcel Tomahawk @


    Ho notato che scrivi in prima persona, per me non c'è alcun problema, solo che mi sa che nel regolamento c'è un qualcosa che lo vieta D:
     
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  6. ganesha`
     
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    La superbia non era una caratteristica che mi piaceva, eppure talvolta io potevo sembrare di averne. In verità ero solo convinta di non valere meno di chiunque altro, la mia autostima era sempre stata parecchio alta, non superiore alla media, ma comunque tale da garantirmi una vita normale, senza troppi pensieri pessimistici e negativi. Non ero certo il tipo di persona che prima di agire o interagire si poneva millemila quesiti, chiedendosi se fosse il casso, se fosse all’altezza di una situazione o di un interlocutore. Ero essenzialmente consapevole delle mie qualità e delle mie capacità – più delle seconde che delle prime – nel senso che, come forse avrò già accennato, sapevo di poter fare qualunque cosa. Questo poteva fare di me una sciocca o una coraggiosa, ma tante volte il coraggio veniva spesso frainteso proprio con la stoltezza, per cui… beh, se esiste un limite tra le due cose, io proprio non ero riuscita ad individuarlo. E non posso nemmeno dire con certezza che il coraggio appartenga agli eroi, perché quella è una questione totalmente diversa, anche tenendo conto del fatto che, almeno nella mia idea, non esistevano eroi, ma solo persone comuni che talvolta provavano ad aiutare gli altri anteponendoli a sé stessi. In ogni caso, sapevo di avere un certo valore, di non dovermi buttare giù per nessuna ragione al mondo, e dalla mia avevo anche una mente piuttosto acuta che mi aiutava nei miei intenti. Non potevo certo ritenermi una stupida, un agnellino intimidito che non sapeva come muovere i propri piccoli passi nel mondo: per quanto fossi sempre stata uno scricciolo di donna, nella mia minutezza riuscivo a dimostrare sempre qualcosa. Quello di cui non ero perennemente certa, però, era il mio istinto. Per natura ero portata a ragionare sulle mie azioni, ad escogitare piani di tutti i tipi, dando adito alla mia ragione di portarmi lontano, alla mia astuzia di farmi arrivare ai miei scopi, quando ne valeva la pena. Ma non ero una persona di istinti, per quanto potessi farlo credere. Quasi sempre, dietro ogni mio gesto si celava un’intenzione ben precisa, per quanto pochi sapessero che questa intenzione fosse il raggiungimento del mio benessere, molte volte. Naturalmente, se avessi dovuto usare la mia astuzia per qualche fine superiore, ero certa che vi sarei riuscita anche con un discreto successo, ma ciò non toglie che non mi era mai capitato di svolgere “grandi imprese”. Era un peccato, in un certo senso, perché si potrebbe dire che avessi delle potenzialità decisamente per niente sfruttate, a farci caso adesso. Forse un giorno sarei stata capace di radunare un esercito o di dirigere un popolo intero, chi lo sa?
    Dicevo che non ero molto istintiva, e in ragione di ciò non sempre ci vedevo giusto quando tiravo ad indovinare su qualcuno. Ehi, ho detto di non essere superba! Ammettevo sempre le mie mancanze… a me stessa, chiaro! Quando lo straniero mi disse che avrei potuto sbagliarmi, affinai lo sguardo e il sorriso, come a volergli rispondere, ma avendo paura di quello che avrei potuto dire. Aveva ragione, lui, come tutti gli uomini, poteva essere tutt’altro che rispettoso e rispettabile. C’è da dire che aveva fatto centro? Non mi fidavo più degli uomini ormai, tutto ciò che mi permetteva di avvicinarmi loro era la consapevolezza che da me non avrebbero ottenuto niente, se non qualche chiacchiera da me voluta per raggiungere i miei stupidi scopi. Difatti, per quanto genericamente si potesse dire che fosse rispettabile, non pensavo che avrei approfondito la questione, così da poterlo conoscere davvero. Insomma, non lo facevo con altri uomini, perché con lui sì? Non avrei permesso a nessun altro di avere il coltello dalla parte del manico e di potermi ferire nella migliore maniera che si volesse.
    Mi morsi un labbro, quindi, e mi strinsi nelle spalle dopo che ebbe parlato. Avete ragione, straniero. Risposi, anche dopo che mi ebbe detto il suo nome. Dante era un nome… nuovo, per me. Non era consueto, per lo meno a Libertà. E chi sapeva se lo fosse, invece, nell’Isola Verde? Okay, adesso la curiosità nei confronti di Dante aumentava, e ciò non era positivo… per lui! Lo osservai attentamente mentre sorseggiava il suo vino, la musica e il fracasso attorno a noi continuavano imperterriti, ma io ora avevo occhi solo per lo straniero. E comunque, se non foste di tutto rispetto, avreste allungato la zampetta quando ne avete avuto l’occasione. Aggiunsi in un secondo momento, alzando ed abbassando in un attimo le sopracciglia, come a lasciargli intendere che mi riferissi a quando mi ero seduta proprio tra le sue braccia. Cosa vi porta a scoprire Libertà? Domandai ancora, per poi rendermi conto che forse quell’interrogatorio avrebbe potuto metterlo a disagio. Non siete costretto a rispondermi, sapete. Sono un’osservatrice molto curiosa, dovrei intrattenere io voi, ma sto lasciando che siate voi ad intrattenere me.
    Phoebe Armstrong@


    Lo so che nel regolamento è scritto così, infatti nella mia presentazione chiesi il permesso di scrivere in prima *w* E' che non mi trovo affatto con la terza persona ç_ç
     
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    Allungò le gambe sotto il tavolo e si stiracchiò come un gatto. Sorseggiò il vino con traquillità, non bevendolo tutto una volta, ma assaporandolo per bene, sentendo il suo dolce aroma, il calore sulle labbra e lungo la gola. Sorrise divertito alle parole della ragazza. "Allungare la zampetta?" ridacchiò, "Oh, non credo proprio. Vedete, se avessi voluto, avrei potuto allungarla anche adesso. Avrei potuto davvero. Però, il fatto che io ve lo confessi, va contro me stesso. Cosa volete farci, sarò proprio un brav'uomo." Si concentrò sulla seconda domanda di Phoebe. Chi era lui? Cosa ci faceva a Libertà? Certo, dall'Isola Verde a lì non erano propriamente due passi. Cosa doveva risponderle? Non era certo di poter dire la verità, non così presto e non a chiunque. Lasciarsi andare era fuori discussione, preferiva rimanere sulle sue dire il minimo indispensabile. Sapeva bene che, se Phoebe avesse voluto, avrebbe tranquillamente potuto tirargli fuori quell'informazione, in un modo o in un altro. Dante l'aveva capito subito. Doveva fare attenzione. Non perchè le sue fossero informazioni strettamente riservate o chissà cosa, ma sapeva bene che un Addestratore che abbandona il proprio mestiere non era propriamente una persona rispettabile o ben vista dal resto della popolazione. Doveva lavorarci su, inventare qualcosa o, meglio ancora, un'identità. Avrebbe potuto fingersi cacciatore ma, qualora vi fosse stata la necessità di dimostrarlo, non avrebbe potuto in alcun caso: infatti, da sempre il suo giuramento verso sè stesso era stato quello di non sfiorare neanche una creatura. Avrebbe potuto uccidere un uomo, ma mai avrebbe torto una piuma ad un passero. Ora che ci pensava, non aveva visto neanche un pettirosso da quando era giunto a Libertà. L'Isola Verde pullulava di animali d'ogni genere, mentre lì nemmeno uno. Ipotizzò seriamente di prendere con sè un cane, almeno sarebbe stato in compagnia. Allontanò quel pensiero da sè e tornò ad immaginarsi in altre vesti. Poteva essere un mercante, ma non aveva alcuna merce da vendere. Era a corto di idee, non riusciva ad aggrapparsi a nulla che non cadesse un secondo dopo, privo di senso alcuno. All'improvviso, gli venne un'idea. "Sapete, Phoebe, sono un viaggiatore. Girovago per le fazioni senza una meta, sono alla continua ricerca di novità, di scoperte. E anche di un lavoro, a dire il vero. Conoscete per caso qualcuno che necessiti di un assistente? Faccio qualsasi cosa." Decise di aver fatto due giuste mosse. La prima era stata dire di essere un viaggiatore: non vi è nulla di più imprevedibile di uno di essi. Un giorno sono in una città, il giorno dopo non vi sono più, non c'è esattamente nulla da dire o spiegare su di loro. La seconda mossa giusta, era stata parlare a Phoebe della sua necessità di trovare un impiego temporaneo: la ragazza, dato il suo lavoro, sicuramente conosceva gran parte della popolazione maschile di quella città e, con questo, poteva sicuramente aiutarlo. "Ditemi una cosa, Phoebe. Che tipo di locale è questo? Vedo giovani e avvenenti fanciulle intrattenere signori..." le lanciò un'occhiata intenditrice e sorrise, portando alla bocca tutto ciò che rimaneva di vino nel boccale. Si sporse verso il tavolo, afferrò la caraffa e se ne versò dell'altro. "Spero non si tratti di ciò che penso, perchè in tal caso..." la fissò, "Avrei il denaro sufficiente per questo vino e per passare la notte in totale solitudine" ridacchiò bevendo.
    Dante Marcel Tomahawk @


    Sìsì, non preoccuparti, a me sta bene xD Lo dicevo per te, non volevo che vi fossero problemi
     
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  8. ganesha`
     
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    Viaggiare. Ritenevo che fosse un verbo adatto, se non perfetto, per tutti gli abitanti di Libertà. Non credete che ci sia un solo modo per intendere il viaggio? Dopotutto, come altro può essere visto un viaggio se non come un equivalente della libertà? Avere la facoltà, la possibilità di andare e venire da e in ogni dove, senza limite alcuno, senza catene che ti tengano stretta ad una persona o ad un luogo. Viaggiare doveva necessariamente significare essere liberi. Tuttavia non tutti in quella terra potevano dirsi dei viaggiatori. C’era chi non era mai andato oltre la propria Fazione, chi oltre la propria città. C’erano persone che pure mentalmente non riuscivano a vedere oltre il proprio naso, e quindi molti di loro non potevano certo definirsi veramente Liberi. Dannazione, a pensarci bene quel territorio era occupato da persone immeritevoli. Se non altro, però, io non ero interessata a giudicare chi fosse o non fosse meritevole di essere chiamato libero. Sapete cosa? In verità non pensavo che fossero i confini entro i quali una persona viveva a definire come ella dovesse essere. In un certo senso, se ci si fa caso, farlo sarebbe stato come indicare gli abitanti di Onore solo ed esclusivamente come degli sbruffoni con la puzza sotto il naso e la convinzione di essere i migliori. Molti da quelle parti si comportavano proprio così, ma io non ero mai stata una di loro, non avevo mai generalizzato niente. Insomma, come non piaceva a me essere catalogata in una certa categoria di donne, poiché con me si sarebbe andati direttamente fuori strada, allo stesso modo – per scansare l’ipocrisia – non catalogavo gli altri, soprattutto per il posto in cui vivevano o erano nati.
    Lui, per esempio, proveniente dall’Isola Verde, probabilmente avrebbe dovuto essere un cavaliere o un addestratore, o comunque qualcuno che avesse a che fare coi draghi, eppure era lì a dirmi che fosse un viaggiatore. Avrei mai potuto giudicarlo? No, né mi interessava farlo.
    Ma se devo dirvela tutta, a me affascinava. No, non Dante in sé, bensì quel che diceva di essere. Un viaggiatore... è chiaro che dovesse allettarmi l’idea di esplorare, scoprire, come aveva detto lui, senza avere radici. Io non ero capace di mettere radici, forse era questa la questione. Ora che ci pensavo, sarebbe stata un’ottima alternativa al mio tedio quotidiano, quella di prendere e andar via, viaggiare, come faceva lui. Sarebbe stata ben vista una donna in viaggio da sola? Non ne avevo conosciuti mai di viaggiatori, gli ambienti in cui avevo vissuto non me l’avevano mai permesso, mentre con lui avrei avuto la possibilità di scoprire cose, la vita, le novità che quella condizione di esistenza comportavano. Allora lo guardai ancor più interessata, dopo che mi ebbe detto quel che in realtà faceva. Mi morsi un labbro roteando lo sguardo alla sua richiesta, ma lasciai che continuasse a parlare. Non proferii parola subito, ma mi guardai intorno e notai che un vecchio uomo aveva lasciato il suo tavolo per salire alla propria camera, così feci cenno a Dante di aspettarmi un secondo, andai per prendere lo sgabello lasciato vacante e posarlo proprio vicino al suo, sedendomici sopra. Accavallai le gambe, poggiai un gomito sul tavolo di Dante e cominciai a giocherellare coi miei capelli, senza nessuna espressione divertita, ma solo con uno sguardo furbo in viso. Potrei conoscere qualcuno, mio caro straniero. Esordii, stavolta dando l’accenno di un sorriso misto a un piccolissimo ghigno. No, non siete costretto a passare la notte con nessuna di noi, perché questa taverna non è quel che credete. Eppure potreste evitare la solitudine... Accennai, assumendo una strana aria innocente, per poi stringermi nelle spalle e sorridere sincera stavolta. Vorrei che mi parlaste dei vostri viaggi, in cambio di un lavoro sicuro. Che ve ne pare? Non c’è niente di compromettente, no? Sfarfallai le ciglia a conclusione di quel discorso, continuando a rigirarmi un riccio tra le dita, mentre con l’altra mano gesticolavo semplicemente. Non volevo incastrarlo in nessun modo, io non ero una persona cattiva, solo... cercavo di evadere in tutti i modi dal mio mondo. E Dante, al momento, mi sembrava la mia via di fuga più vicina.
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    Phoebe prese uno sgabello e si sedette accanto al tavolo, di fronte a lui, posandovi un gomito sopra e giocando con i suoi lunghi capelli ramati. Dante notò che aveva l'abitudine di farlo spesso, quel movimento. Forse si trattava di deformazione professionale, chissà. Anche lui aveva una specie di vizio, se così si potesse chiamarlo. Quando non capiva qualcosa o semplicemente non quadrava secondo i suoi calcoli, Dante socchiudeva appena l'occhio sinistro, sollevava il sopracciglio destro e storceva le labbra. Era ciò che lo caratterizzava oltre allo sguardo: tutti sapevano che quello era il suo modo di essere in un certo senso contrariato. Certo, tutti quelli che lo sapevano erano sull'Isola Verde. Dove era adesso, non lo sapeva nessuno e forse, non l'avrebbe mai saputo. Doveva ammettere di sentirsi in parte attratto da Phoebe. Non si trattava di impudenza carnale, no, e nemmeno di infatuazione. Semplicemente, si sentiva protratto verso la ragazza, qualcosa lo spingeva a parlare con lei, a fare il misterioso, a desiderare tacitamente la sua presenza. Ammetteva a sè stesso che Phoebe era senza alcun dubbio piacente. Non era molto alta, certo, ma la sua minutezza le dava raffinatezza, inoltre non era scheletrica come la maggior parte delle donne dell'Isola Verde. Aveva forme piene, perfette, sprizzava femminilità da ogni poro. Il suo viso era dolce eppure, Dante lo avvertiva, quasi spigoloso, come quello delle persone molto sicure di sè. Sapeva bene che Phoebe apparteneva a quella categoria di persone. Parlava con scioltezza, si muoveva con scioltezza, le sue parole erano libere come lei eppure quasi misurate. Sorrise tra sè. Da quanto tempo non aveva rapporti con una donna? Tanto, calcolò. La sua prima ragazza l'aveva avuta a quindici, forse sedici, anni. Erano stati insieme per tanto tempo, due anni circa. Si chiamava Jill ed era la figlia del panettiere. Dante ricordava come sapesse sempre di farina e pane caldo quando si incontravano. Si erano lasciati quando lei aveva accettato di sposare un altro ragazzo. Dante aveva sofferto, ma si era consolato con la sua amante natura e non vi aveva pensato più di tanto. Aveva avuto rapporti con altre donne, ma nulla di serio. In realtà, nei rapporti era piuttosto bravo, riusciva sempre ad esprimere i suoi sentimenti eppure, non soffriva quando queste finivano. Forse perchè nel profondo sapeva perfettamente perchè, come e quando la storia era finita. Ridacchiò alle parole di Phoebe. "Mi tentate, lo ammetto." disse, "Ma vedete, io sono un tipo fastidioso. Prenderei tutto il materasso e ruberei la coperta solo per me." Rise divertito. Quando però la ragazza gli chiese dei suoi viaggi, Dante incurvò il sopracciglio, contrariato. In realtà, ancora non aveva compiuto nessun viaggio. Era partito solo cinque giorni prima, lasciando la sua casa, la sua famiglia, tutto ciò che aveva più a cuore. "Vedete, Phoebe. Abbandonai la mia casa salpando per la fazione della Libertà. Attraversai il mare trascorrendo giorni di nausea e dolori a causa delle onde che spingevano la mia nave. Giunto al porto, presi il nord come guida e camminai per un'intera giornata prima di giungere in una cittadina senza nome. Lì, mi recai in una locanda e, dopo che mi fui rifocillato dinanzi ad un bel fuoco, una giovane e avvenente fanciulla mi sedette al fianco e mi tenne compagnia per tutta la sera. Ecco, Phoebe, il resto deve ancora avvenire e voi potreste scriverlo con me." Dante le lanciò un'occhiata e sorrise di gusto. "Ora però, dovete essere una donna d'onore e mantener fede alla vostra promessa. Un lavoro in cambio del racconto dei miei viaggi. Oppure" valutò bene la sua proposta, facendo sì che suonasse quasi come una ironica minaccia, "Sareste costretta a vedermi ogni qui, in questa locanda, importunarvi e costringervi a conversare con me fino a quando non sarete esausta." Dante si sporse in avanti e fissò Phoebe, inarcando un sopracciglio e strofinandosi le mani al calore delle fiamme nel camino.
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